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Concorso letterario
SEGUI LA LANTERNA

Il primo concorso letterario organizzato dalla nostra associazione.

Ogni partecipante deve presentare un racconto di dieci pagine massime, senza vincoli di genere, all’interno del quale ci sia un riferimento alla lanterna intesa come oggetto.

La vincitrice di questa prima edizione 2025 è Alessia Fiorentino, con il suo racconto “A piccoli passi”.

Secondo posto vinto da Fabio Ferretti “La Lanterna”, terzo posto meritato a Milena Grazioli con “Insonnia”.

Pubblichiamo qui gli elaborati dei più meritevoli.

Buona lettura!

LA PREMAZIONE DEI VINCITORI AVVERRA' DOMENICA 27 APRILE ORE 12.00 DURANTE LA MANIFESTAZIONE "VENETO IN COPERTINA"- PIAZZA CANTIERE DOLO VE- PALCO OSPITI

Scrivere al computer

A PICCOLI PASSI- ALESSIA FIORENTINO

 

Uno dovrebbe essere rilassato alla vigilia delle vacanze, io no, ne ho timore. Siamo una famiglia strana, o forse lo siamo diventati con gli anni. Viviamo sotto lo stesso tetto, ma ognuno sta bene nel suo spazio: mio marito in garage, mia figlia in camera, io in banca tra i numeri. Romeo è l'unico che sta bene un po' qua un po' là, ma lui ha quattro anni, e a quattro anni è tutto favoloso.

È da molto che non passiamo del tempo insieme e non so proprio quale sarà il risultato. Tra l’altro partiamo con il discutibile furgoncino hippie, giallo canarino, prestatoci da una coppia di amici. È stata un'idea di Bruno, credo l'abbia fatto per testarlo e per stare in qualche modo vicino ai suoi amati motori. L’ho lasciato fare, non avevo voglia di trascinarlo anche quest'anno al mare per sentirmi dire che fa caldo.

Tanto Lena avrebbe avuto comunque da ridere, Lena nell'ultimo anno e mezzo ha da ridere su ogni cosa. La vita degli adolescenti è un reso merce costante di ciò che i genitori propongono, quindi il suo disappunto in questo caso non è troppo rilevante. Spero solo che ritrovi un po' di sintonia con il padre, perché nell’ultimo periodo il loro rapporto viaggia dal “buongiorno” dritto alla “buonanotte” e io sono esausta di esserne la mediatrice.

 Insomma, ho paura di questa vacanza.

Non avrei mai pensato di dirlo ma rimpiango le vacanze con Lena bambina e Romeo neonato. Bruno e io non avevamo nemmeno il tempo di lavarci il muso, i bimbi erano totalizzanti, non chiedevano altro che le nostre attenzioni. E noi due complici, sdrammatizzavamo le fatiche, in mezzo a frenesia e disordine. Ora è tutto diverso. Ora ognuno non vede l’ora di farsi i fatti propri.

Una cosa però è rimasta invariata: è la sera prima della partenza e io devo ancora fare le valigie, per tutti.

 “Ehi, Chià! Ti squilla il telefono, è tua madre.”

“Arrivo.”

 È il momento delle raccomandazioni. State attenti alla strada. State attenti ai bambini. La montagna è pericolosa, potreste imbattervi in un orso!

 “Ciao mà! Sono di corsa che sto finendo le valigie.”

“Chiara, devi tenermi Brendy!”

“Eh?”

“Brendy. Mi hanno chiamata da Roma, c’è stato un ripescaggio per quella trasmissione di cucina. Starò via tre giorni per la selezione e non so a chi lasciarlo.”

“Mamma è impossibile, anche noi stiamo per partire, ricordi?!”

“Brendy starà benone in montagna!”

“Lo sai che Romeo ha paura dei cani.”

“È tuo marito che ha paura dei cani, non Romi.”

“A Bruno non piacciono. Romi ne ha paura e in più stiamo per partire. Per favore mamma, trova un'altra soluzione.”

“Lena è felicissima che Brendy venga con voi.”

 

Colpo basso. Vecchia volpe, è proprio mia madre. Ha già escogitato tutto, toccando il delicato tasto -Lena-, sa di aver vinto. Sa bene che tutto ciò che può renderla meno adolescente e più bambina fa al caso nostro. Quindi... abbiamo un cane. E io devo parlare con mio marito.

L'ansia per questa vacanza è alle stelle.

 

-

 

“Stai scherzando, vero? Io quel mostriciattolo non lo voglio nel nostro Volkswagen. Puzza e perde pelo.”

“Il furgone non è nostro e Brendy non puzza.” Ma sì, perde quintali di pelo.

“Riflettici bene, potrebbe esserci di grande aiuto con Lena. Sai quanto ci è affezionata. Potremmo usarlo come gancio per farla camminare e darle qualche compito. Così la stacchiamo da quel cavolo di cellulare.”

So di averlo colpito nel segno, da quando le abbiamo concesso lo smartphone Lena pare in un'altra dimensione. Abbiamo provato a limitarne l'uso, ma è peggio. Ha cominciato a gridare in giro per casa, nemmeno quando aveva due anni le ho visto fare certe sceneggiate. Abbiamo consultato anche uno psicologo e ci ha consigliato di essere vigili ma di lasciarle il telefono in libero arbitrio, per renderla più responsabile. Ma è un disastro comunque, scorre video su TikTok a tutte le ore. Lobotomizzata. E se le parli, le dai fastidio.

“Fatti dare un trasportino. Il peloso non uscirà da quel coso senza il mio permesso.”

Chiuso in un trasportino per quattro giorni. Povero chihuahua. Ma è sempre meglio di niente.

 “Mammaaa, il tuo telefono suona!”

Mia madre, di nuovo. Magari ci ha ripensato.

“Grazie Romi.”

“Mamma, mi metti una canzone di Elsa?”

“Fammi rispondere alla nonna e poi ci pensiamo.”

Ciuccio in bocca e mani conserte. Si siede per terra piantandosi sopra un piede. Maledetta quella volta che gli ho fatto vedere Frozen, ora è ossessionato da quelle canzoni.

“Ehi mà, dimmi.”

“Comunque sei una stronza.”

“Scusa!?”

“Ti dico che mi hanno chiamata per la trasmissione di cucina e non mi chiedi niente.”

Pure i sensi di colpa adesso. Quest’ultima ora sta durando una settimana.

 “Ero concentrata sulla faccenda Brendy.”

Cerco di darle l’importanza che merita, d’altronde è grazie a lei se ho mangiato bene per almeno vent’anni, glielo devo. E poi si sa, quando si tratta di sogni nel cassetto abbiamo tutti bisogno d’incoraggiamento. La cucina è sempre stata il suo regno e nei suoi piatti ci mette davvero

il cuore. Riesco a infonderle tranquillità, carica e chiudo la telefonata senza sensi di colpa.

Riparto cacciata verso le valigie, dimenticandomi di avere Romeo agganciato al piede e per poco non ci schiantiamo entrambi.

“Aiaaa! Mamma! Aiaaa!”

“Romi, scusami tesoro, ti sei fatto male?”

“Aiaaa! Voglio Elsa! Aiaaa!”

“Dove ti sei fatto male?”

“Voglio Elsaaa!”

Raccolgo il telefono, che nel mentre è finito per terra, e metto la dannata canzone di Frozen.

“Una volta sola.” che tanto equivale almeno a tre. O non finirò mai le valige.

Incrocio Bruno in corridoio che serafico mi annuncia che Lena non vuole più venire in vacanza.

“Perché?”

“Non le sta bene che il topo stia nel trasportino.”

Spiego a mio marito che ho ancora tutti i bagagli da preparare, alcune pratiche di lavoro da ultimare e lo prego gentilmente di accordarsi con sua figlia sulle modalità di accudimento di Brendy. Visto che l’idea d’imprigionarlo è stata sua. Aggiungo anche che vada ad affrontare Frozen e suo figlio. Con gli uomini bisogna essere chiare, eppure a volte non funzionano nemmeno gli elenchi puntati.

 

-

 

Usciamo di casa, in pieno stile Mamma ho perso l’aereo e carichiamo le ultime valigie.

“Questa dove lo metto?”

Chiede mio marito sventolando una scatola che non riconosco.

“Non è mia.”

“Mia neppure.”

“Lena?”

Alza l’occhiale da sole e lo riabbassa in silenzio, è un no. Mi avvicino per capire meglio, d’istinto scuoto la scatola rigida, che ha anche un certo peso, e noto così un biglietto infilato nella chiusura. Lo sfilo:

-Un pensiero per tutti voi. Apritelo alla prima sosta. Buone vacanze! -

 Senza mittente.

“Dai forza, siamo in ritardo sulla tabella di marcia.”

Seguo le parole di mio marito, appoggio il pacco sul tappetino e salgo.

Non so come sia possibile ma siamo tutti a bordo. Bruno alla guida, io al suo fianco, Romeo mezzo dormiente sul seggiolone nella zona posteriore e Lena vicino a lui, ma dentro lo schermo dello smartphone. Brendy nel trasportino. Si parte.

“Quanto ci vuole per arrivare al mare?”

“Lena, non stiamo andando al mare.”

“Ah.”

“Vuoi sapere dove andiamo?”

“Mhmm.”

“In Val Brembana, in una baita.”

“Mhmm.”

“Sai dov’è la Val Brembana?”

“No.”

“Fattelo spiegare da mamma.”

Merda, non lo so neppure io. È già tanto se tutti hanno delle mutande di ricambio.

“Dov’è, mà?”

“Eeem…”

Bruno capisce che brancolo nel buio.

“Benissimo, nessuno sa dove stiamo andando…”

“Effetto sorpresa assicurato!” sovraccarico la frase di entusiasmo.

“Quale sorpresa?” Romi resuscita dal sonno.

Punto l’occhio sul pacco abbandonato e tento di salvare il salvabile: “Questa qui!”.

Anticipo così l’apertura della scatola. Tiro fuori uno strano aggeggio, la forma è quella di una lanterna con tanto di candela mezza consumata all’interno, ma un particolare su tutti vince in stranezza: la porticina ha una chiusura meccanica, simile a quella delle casseforti. Non ho mai

visto nulla di simile, dev’essere opera di un artigiano.

Dentro lo sportellino noto un altro biglietto, lo leggo ad alta voce.

-Ciao a tutti! Mi presento, sono una lanterna con un timer a chiusura temporizzata e ho una sfida per voi: aiutatemi a ritrovare la luce.

Per farlo basta seguire alcune regole:

Giorno 1- dopo l’apertura del pacco infilate tutti i telefoni dentro la lanterna, impostate il tempo di chiusura (3 ORE) e godetevi il resto del viaggio. All’arrivo Chiara propone un’attività.

 

Giorno 2- dopo la colazione infilate tutti i telefoni dentro la lanterna, impostate il tempo di chiusura (4 ORE) e godetevi la mattinata. Bruno propone un’attività.

 

Giorno 3- dopo pranzo infilate tutti i telefoni dentro la lanterna, impostate il tempo di chiusura (5 ORE) e godetevi il pomeriggio. Lena propone un’attività.

 

Giorno 4- Alle 18:00 infilate tutti i telefoni dentro la lanterna, impostate il tempo di chiusura (6 ORE) e godetevi la serata. Romeo propone un’attività.

 

Buona sfida! -

 

“Che scherzo di cattivo gusto.” Lena.

“Questa è opera di tua madre.”

“Mamma, mi metti Frozen?” Romeo.

La loro freddezza accende in me una fiamma.

“A me sembra un’ottima idea. Dovremmo provarci.”

Prendo il mio smartphone, apro lo sportello e lo infilo dentro. Guardo Bruno.

“Se infilo ora il telefono lì dentro come arriviamo in Val Brembana? Visto che nessuno sa dov’è…”

“Compriamo una cartina al primo autogrill.”

L’indiana Jones che abita in mio marito si risveglia, mette una freccia e accosta.

“Ok, proviamoci.”

“Scordatevelo, io il mio smartphone lì dentro non ce lo metto.”

“Lena, questa non è un’opzione.” Dico con fermezza.

“Se mi obbligate a farlo mi getto in mezzo alla strada e inizio a urlare.”

“Se accetti la sfida il topo può uscire dal trasportino.”

L’affermazione di Bruno mi lascia sbalordita, lo sento complice, e soprattutto, colpisce nel segno.

“Solo per oggi.” Afferma Lena, sganciando all’istante la porticina per far uscire Brendy.

Prendo i telefoni di tutti e li infilo dentro la lanterna.

“E io?” chiede Romi.

E lì un lampo di genio, Bruno e io ci guardiamo intendendoci all’istante.

“Il ciuccio!”

È una delle battaglie che non riusciamo ad affrontare, Romi usa ancora il ciuccio, e noi per continui rimandi e per estrema comodità non siamo ancora riusciti a toglierglielo.

Sgrana gli occhi impaurito, ma accetta la sfida, che così ha il sapore di un gioco. Toglie il ciuccio, lo infila nella lanterna e chiude lo sportellino.

Seguo le istruzioni per impostare il timer di 3 ore e un click segna l’inizio di questa follia. Non so bene dove stiamo andando e nemmeno cosa stiamo facendo, ma un brivido nuovo mi sfiora.

 

Dopo aver discusso con mio marito per mezz’ora sulla cartina migliore da acquistare, mentre Lena e Romi bisticciavano sui dolciumi da comprare, riusciamo a rimetterci in marcia. Viaggiare consultando la mappa e sgranocchiando M&M’s non mi fa sentire la mancanza dello smartphone. Bruno e io ci lanciamo continue frecciatine, sbagliamo qualche direzione e ci incolpiamo a vicenda. Segni che abbiamo preso sul serio la sfida. I ragazzi ronfano a bocche spalancate. Dopo due ore la

cartellonistica stradale ci fa capire che siamo quasi a destinazione. Arriviamo in un piccolo paesino e lì chiediamo indicazioni ai passanti. Mia nonna diceva che con la lingua si può arrivare dappertutto e aveva ragione.

Grazie alle indicazioni ricevute imbocchiamo la stradina agro-silvo-pastorale che stavamo cercando e finiamo praticamente in mezzo al bosco. Ora anche i ragazzi sono svegli e Romeo ride come un matto per come stiamo traballando, Lena ci minaccia di chiamare il telefono azzurro, mentre Brendy si gode l’aria di montagna con il muso fuori dal finestrino.

Dopo una quindicina di turbolenti minuti e qualche testata sul tettuccio vediamo la baita.

 

BAITA LA SACRA FAMIGLIA

Il cartellone recita così.

“Quindi ora possiamo riavere i telefoni?” chiede Lena prima ancora che Bruno spenga il motore.

“No, il timer segna altri 40 minuti.”

“E poi ora tocca alla mamma.”

L’uscita di Bruno mi sorprende. Era attento quando ho letto le regole.

Mi ritrovo però spiazzata, non so che attività proporre. Avrei potuto pensarci in camper, ma la consultazione della cartina ha assorbito gran parte delle mie energie. A dire la verità mi sono divertita a osservare il comportamento di tutti in questa nuova situazione. Credo di essermi goduta il viaggio.

“Intanto portiamo dentro le cose e diamo un occhio alla casa.”

 

La proprietà è davvero particolare. Ci sono due casolari distinti, uno con camere e bagno e l’altro con solo la cucina. Le due parti sono collegate dal giardino, al centro del quale regna una grande tavola di legno. Il tutto è arricchito da una maestosa quercia con sotto un’amaca e un barbecue. E bravo Bruno, questo posto sa di pace.

 

La zona notte si sviluppa in verticale, come una piccola torre. Al piano terra un letto matrimoniale, il bagno e una scala a chiocciola, che porta all’altra camera al piano superiore.

Propongo di preparare insieme i letti. Lena si lamenta dell’attività e io la sfido a fare di meglio quando toccherà a lei.

“Puoi contarci.”

Bruno prende le lenzuola piegate sul fondo del letto e avvia le danze.

Dopo aver chiarito a tutti qual è il coprimaterasso e quale il copriletto, ognuno di noi afferra il lenzuolo da un lato e lo porta verso la propria estremità. Di solito, quando lo faccio da sola, devo circumnavigare il letto più e più volte e gli angoli fanno i capricci; così invece, a parte Romeo che perde di mano il suo angolo, è tutto più facile. Mentre sto sistemando il copriletto, con l’aiuto di Romi e la resistenza di Lena, un forte rumore ci sorprende dal piano di sopra.

“Cos’è stato? Scordatevi che io dorma lassù stanotte!” chiarisce subito Lena.

“Dev’essere caduto qualcosa.”

Dal fondo della scala a chiocciola, che ammetto essere un tantino inquietante, alziamo lo sguardo verso la porta che d’improvviso si spalanca. E quello scemo di mio marito esce ululando, coperto da un lenzuolo. Lena balza indietro per lo spavento, cadendo sul letto appena fatto e Romeo mi salta in braccio.

La mia attività termina così, in un misto tra Desperate Housewife e Piccoli Brividi, ma ammetto che mi sono divertita.

Lena si piazza puntuale davanti alla lanterna, mio marito la apre e consegna gli averi. Per una buona mezz’ora ognuno torna nel suo mondo virtuale e si sconnette dalla realtà. TikTok, ciuccio e Frozen, video di motori e io che controllo le mail.

 

-

 

Alla fine abbiamo dormito in quattro sul lettone. Non succedeva dalla nascita di Romi. In quel periodo Lena diceva di avere paura dei ladri e capitava dunque di stringerci tutti insieme. Era scomodissimo, ma ci stavo benone là in mezzo. Stanotte ho risentito quel calore.

Infiliamo le felpe e ci godiamo la colazione in giardino. Lena fotografa la sua tazza da ogni angolazione, Romeo affoga innocenti biscotti nel latte e io rispondo ai whatsapp in sospeso.

“Bene gente, qui i telefoni e il ciuccio.”

Bruno appoggia con slancio la lanterna sul tavolo. Sono sorpresa di questo suo trasporto, ma forse è solo il fascino della novità, e poi oggi tocca a lui scegliere l’attività. Lena sbuffa, mentre Romi si infila in bocca il ciuccio e se lo tiene con due mani. Faccio il primo passo, mollo la chat di -scambio libri usati- e consegno il telefono. I ragazzi mi seguono.

Bruno imposta le 4 ore nel timer.

“Andate a mettervi le scarpe, oggi facciamo una

passeggiata.”

“Però! Anche tu non scherzi a fantasia…” Lena proprio non ce la fa a frenare l’entusiasmo.

“Papà, io però sono stanco. Vorrei un cartone!”

“Romi… ci siamo appena svegliati.”

“Ah… allora dopo.”

 

Preparo dei panini e partiamo. Da come Bruno si muove capisco che non ha una meta precisa. Si guarda qua e là e cambia strada un paio di volte. La cosa mi irrita.

“Dove stiamo andando?”

“Non lo so.”

“Ma…”

“Chià, ti prego: molla l’osso, respira e goditi il panorama.”

Brendy è il più soddisfatto, cammina e scodinzola spensierato. Alla fine seguiamo le indicazioni che segnalano una malga a 40 minuti.

Camminare con Romi raddoppia i tempi, da buon bambino oscilla tra slanci d’entusiasmo per la contemplazione dei sassi, a richieste di pause continue. Lena a sorpresa si è messa alla guida della passeggiata, investita dalla missione di cercare i segni del CAI per orientarci. Vederla a schiena dritta mi fa stare bene, con il telefono ho la certezza che sarebbe stata una gobba chiudi fila. Questo strano gioco mi piace sempre di più. Mia madre, oltre ad averci appioppato Brendy, ci ha fatto un bel regalo.

Raggiungiamo la malga e l’atmosfera che profuma di erba fresca e formaggio fuso ci invita a fermarci per pranzo.

“Quindi il tuo piano era rimpinzarci in malga?” provoco Bruno.

“Il mio piano, non era un piano. Mi andava d’improvvisare insieme. Non lo facevamo da molto.”

“È un modo per ribadirmi che organizzo troppo le cose?”

“No, è un modo per dirti che mi piace vederti mangiare un piatto di tortelli fumanti, anche se hai un panino farcito nello zaino.”

Appoggio la testa sulla sua spalla e respiro forte questa montagna.

“Tu e Lena in testa alla passeggiata eravate il paesaggio più bello.”

 

-

 

È il giorno di Lena. Dopo pranzo telefoni e ciuccio entrano nella lanterna senza alcuna resistenza. Bruno e io abbiamo fatto varie ipotesi sull’attività che potrebbe proporci.

“Torta di mele.”

Nessuno parla.

“Torta di mele.” ripete e mi guarda fissa negli occhi.

Non la prepariamo dal giorno che è morto mio padre. Un infarto, un fulmine che ha squarciato il nostro cielo sereno, mio padre era il sole per molti. Quando mamma mi ha chiamata per avvisarmi stavamo facendo una torta di mele. Quell’ultima torta risale a tre anni fa. Adoravo fare quel

dolce con Lena, fin da quando le sue manine erano paffute e fatte solo per travasi e pasticci. La preparavamo così spesso che a cinque anni era praticamente in grado di farla da sola.

Gli occhi scuri di Lena mi fanno capire che non avremmo dovuto smettere, che saremmo dovute andare avanti. La torta di mele non aveva colpe.

“Abbiamo l’occorrente?” chiede Bruno, infilandosi tra i nostri sguardi.

Lena sparisce dietro un pensile e comincia a estrarre gli ingredienti.

“L’ultimo che tocca la quercia in giardino sbuccia le mele.” Molla tutto sul bancone e inizia a correre. Ci travolge. La seguiamo. Ed è bellissimo.

“Papà sbuccia le mele!”

Siamo tutti attorno al bancone, ognuno immerso nella propria mansione. Si parla di farina, zucchero e uova, ma ciò che stiamo costruendo è molto di più.

Romi mescola con molta più forza del necessario, spandendo qua e là, mentre noi aggiungiamo gli ingredienti.

“C’è tutto?”

“No, manca l’ingrediente segreto!” Ribatte Romi con il ditino alzato.

Lo guardo perplessa.

“Manca l’amore.” E così dicendo rovescia una raffica di baci nella ciotola.

Deve averlo imparato da mia madre. È il primo ingrediente che insegna in cucina.

Infornata la torta e ripulito il bancone, Lena torna a sorprenderci.

“Portiamo fuori Brendy?”

Far fare pipì al mostriciattolo è diventato ormai un momento di famiglia. Mentre Bruno porta sulle spalle Romeo, io cingo la vita di Lena e le dico, a mio rischio e pericolo, che questa vacanza non mi pare così male.

“Mhmm…”

“Anche il gioco non è male.” Aggiungo.

“Tanto poi a casa torna tutto come prima.”

“Tutto come prima, come?”

“Che ognuno si fa gli affari propri. Criticate tanto me e il cellulare ma voi non siete molto diversi.”

“Forse hai ragione. Ma una cosa è certa, ricominceremo a fare la torta di mele.”

Ancora una volta investo questo dolce di una grande responsabilità e con una nuova promessa riesco a strappare un sorriso dagli occhi della mia Lena. A piccoli passi, stiamo facendo un bel po’ di strada.

Estraiamo la torta dal forno, la cospargiamo con una nuvola di zucchero a velo e soffiamo sulle fette ancora fumanti. L’ingrediente segreto ha fatto la differenza, in questa merenda c’è amore.

 

-

 

È l’ultimo giorno, domattina si riparte. Mi dispiacerà lasciare questo posto. In fondo so che Lena ha ragione, una volta a casa tornerà tutto come prima. Ognuno nella sua frenesia. Ma ora è il momento di godersi l’ultima magia. Alle 18:00 spontanei ci raduniamo sotto la quercia. A impostare il timer oggi è Romi.

“Quindi che si fa Romi? Tocca a te decidere.”

“Guardiamo un cartone!” recitiamo in coro, conoscendo la sua risposta.

Accettiamo di guardare per l’ennesima volta Frozen, ma prima lo sprono a pensare a un gioco da fare insieme e a decidere cosa mangiare per cena.

Ci ritroviamo così a giocare a nascondino aspettando i bastoncini di Capitan Findus.

Conto io, sono tutti nascosti, ma ho la profonda sensazione che non li vedevo così bene da troppo tempo.

Mi sento un po’ come Cenerentola, temo l’arrivo della mezzanotte, la lanterna temporizzata si riaprirà per l’ultima volta e torneremo alla normalità. Brendy si aggiudica gli ultimi due bastoncini rimasti, a darglieli sono Bruno e Romi, tutto sommato anche il mostriciattolo ha fatto la sua parte. Ammorbidendo gli spigoli di mio marito, ora anche Romi è più tranquillo al suo fianco.

Ci incastriamo tutti sul lettone per entrare nel regno di Frozen. Romi conosce le battute a memoria, osservarlo è il cartone nel cartone. Il sorriso che gli si dipinge in volto quando entra in scena Olaf, il pupazzo di neve, vale ogni capriccio fatto per questo film.

E una frase cantata da Elsa mi risuona forte: “Le persone che io amo sono tutte qua.” La regina del ghiaccio ha ragione.

Ci addormentiamo così, senza riaprire la lanterna, senza smartphone e senza ciuccio.

 

-

 

Riporto Brendy a mia madre e passo un’ora a consolarla per non aver passato la selezione.

“Puoi sempre riprovarci!”

“Vedremo…”

“E comunque grazie, ci hai fatto un grande dono.”

“Lo so, Brendy è un cane speciale.”

“Non mi riferivo a Brendy, ma alla lanterna.”

“Eh?”

“Alla lanterna temporizzata.”

“Tesoro, di che parli?” sembra davvero sorpresa, che attrice.

“Dai mà…”

“Ah, ma parli di quell’aggeggio che stava costruendo tuo marito in garage?”

Mi illumino. Adoro mia madre che non si fa mai i fatti suoi. E ho chiara più che mai la luce della mia lanterna.

 FINE

LA LANTERNA - FABIO FERRETTI

Bip, una notifica. Appoggio la penna, che inizia a rotolare sul quaderno di matematica. Prendo in mano il telefono: un nuovo messaggio su Instagram. Luca mi ha taggato sul suo stato, devo ricambiare subito. Do un’occhiata veloce al quaderno aperto. I compiti possono aspettare. Mi tolgo i pantaloni del pigiama, infilo i jeans, metto il cappellino in testa e mi piazzo davanti allo specchio. Scatto una decina di foto, una per ognuna delle mie classiche pose, quelle acchiappa-like.

Torno alla scrivania e le scorro. Mi soffermo su quella con la mano davanti al viso: è quella giusta. Il cappellino è inclinato alla perfezione, il ciuffo biondo appena in vista, e i jeans sono abbastanza bassi da mostrare la marca dei boxer. Ora applico la sfocatura, aggiungo qualche animazione, luci lampeggianti, scelgo l’ultima hit e… ecco, la storia è pronta per essere caricata. Premo il pulsante e la pubblico.

Torno alla mia equazione, guardo l’accozzaglia di numeri sulla pagina, mi metto le mani tra i capelli e provo a ricordarmi il punto in cui l’avevo lasciata. Ma la testa è già altrove.

Bip, un’altra notifica da Instagram. La mia storia piace. Bip, bip, bip, bip. Guardo il telefono illuminarsi a ogni like. Sono felice, lo afferro con soddisfazione e controllo il numero di visualizzazioni: sta andando alla grande. Faccio uno screen della statistica e lo invio a Luca, orgoglioso del risultato.

Bip, Luca mi ha risposto inviandomi i suoi numeri. Merda, mi ha battuto anche stavolta. Gli voglio bene lo stesso, ma un po' mi rode. Gli rispondo con l’emoticon della faccia che ride. Sarebbe bello, una volta tanto, superarlo. Essere io quello in cima. Io quello che tutti ammirano.

La mamma apre la porta della camera. «Marco, come fai a studiare con il telefono che suona in continuazione? Non ti concentrerai mai così.»

Poso d’istinto il telefono a faccia in giù sulla scrivania. «Non rompere. Sto facendo.»

Si avvicina e mi appoggia una mano sulla spalla. «Devi finire i compiti prima che arrivi papà a prenderti.»

Bip, un’altra notifica. Allungo la mano verso il telefono, ma lei mi lancia un’occhiata che sembra volermi prendere a sberle. La ritraggo svelto. «I compiti li posso finire a casa di papà?»

Ride sarcastica. «Quando sei con tuo padre è già tanto se ti ricordi di andare a scuola con lo zaino.»

Ripenso a quando queste discussioni echeggiavano tra le mura di casa: lei che si arrabbiava perché non studiavo e lui che le diceva di lasciarmi fare di testa mia, che tanto poi ne avrei pagato le conseguenze. Odiavo quei litigi, ma odio ancora di più la calma che si è venuta a creare dopo la separazione.

«Studia,» dice con tono autoritario, chiudendosi la porta alle spalle.

Ma la mia testa riesce a pensare solo alla notifica che non ho ancora letto. Il bip è come un richiamo, e ogni volta che lo ignoro, la mano si muove da sola, come un riflesso. Sblocco il telefono. Luca ha fatto una storia: in primo piano ci sono le sue nuove scarpe Air Force One nere. Che fighe. Le voglio anche io ma mamma ha detto di no. Forse se insisto con papà, riesco a farmele comprare. Che fortuna che ha Luca: la settimana scorsa gli hanno preso la tuta nuova e oggi le scarpe. Farei volentieri a cambio con la sua vita.

Nel frattempo, continuano ad arrivarmi like alla mia storia. Lo sto sorpassando, ormai ho superato le sue trecento visualizzazioni e sto per arrivare a quattrocento. Aggiorno compulsivamente l’app, per vedere il numero crescere: trecentonovanta, trecentonovantuno.

«Marco! Metti giù quel telefono!» La voce di mamma è così squillante che mi sembra di averla accanto al letto.

Trecentonovantanove… quattrocento. Mitico!

Mi distendo sul letto a pancia in su, incantato a guardare la fila di luci led sul soffitto. Il telefono, poggiato sul petto, smette di vibrare. Non arrivano più notifiche. Mi accorgo che quel senso di euforia che avevo fino a un secondo fa si dissolve. Un attimo prima ero al top. Adesso... nulla.

Bip, bip, bip. Tre messaggi di Margherita. Il primo è un cuore trafitto da una freccia, il secondo una testa che esplode, e il terzo una pila di libri. Le manco, dice, vorrebbe che ci vedessimo ma deve studiare. Comunque, non avevo intenzione di uscire oggi pomeriggio.

Chiudo l’app, le risponderò più tardi. Apro la galleria delle foto: devo inventarmi qualcosa per ribattere al post sulle nuove scarpe di Luca.

Scorro le immagini e torno a questa estate. Passeggiavo al mare quando ho incontrato un venditore ambulante che vendeva borselli falsi di Louis Vuitton. Non potevo comprarli, ma sono riuscito a farmi fare una foto mentre ne indossavo uno.

La scontorno, ci metto come sfondo una strada di New York, aggiungo gli effetti e metto in sottofondo una musica trap. Finito. Sono pronto a premere il pulsante per pubblicarla.

Suona il campanello.

«Marco! Papà è arrivato. Scendi subito, non farlo aspettare.»

Sbuffo. Che palle. Non ho ancora preparato la borsa con i vestiti e lo zaino per domani.

«Ma non posso rimanere con te?» le urlo in risposta.

«Smettila. Sai che papà ci tiene al suo giorno.» mi risponde dalle scale.

Bip, un messaggio di Luca: “Facciamo una video call?” Beato lui che non deve traslocare due volte a settimana.

Bip, messaggio di Margherita: una GIF animata di una bambina che aspetta il bus alla fermata. Ora non ho tempo per nessuno dei due.

Prendo lo zaino di scuola, ci infilo dentro i libri per il giorno dopo, un cambio e il caricabatterie del telefono. Mamma mi sta aspettando accanto al portone.

«Ti sei ricordato tutto? Hai messo anche il quaderno nuovo di matematica? Nel vecchio ti è rimasta solo una pagina libera.»

La saluto sbuffando ed esco in strada. Papà non è nemmeno sceso dall’auto: mi aspetta seduto all’interno, con il motore acceso. Dalle casse esce il jingle della radio.

Salgo.

«Ciao,» mi dice.

«Ciao,» rispondo. Apro subito il telefono e approfitto del viaggio in auto per scrivere a Luca e a Margherita.

Usciamo dal vialetto, papà spegne l’autoradio. «Allora, non mi racconti niente?»

«Boh,» rispondo distrattamente, mentre guardo il TikTok che ha pubblicato Margherita: si sta provando un eyeliner in negozio. E pensare che mi aveva scritto che doveva studiare. Mi sento preso in giro e chiudo il telefono scocciato. Guardo la strada che scorre fuori dal finestrino.

Papà tamburella con le dita sul volante. «Allora, dai, raccontami come va a scuola.»

Non ho voglia di parlare della scuola, dovrei riassumergli gli ultimi tre giorni di interrogazioni e verifiche: è troppo lunga da raccontare. «La scuola va bene, ma ho sempre l’insufficienza in matematica che non riesco a tirar su.»

Papà mi appoggia una mano sulla gamba. «Ti va se questa sera andiamo al sushi?»

Non ci penso nemmeno un minuto. Già immagino il post fighissimo che farò sui social. «Ok!»

Bip. Suona di nuovo il telefono, ma questa volta non è una notifica di Instagram. Guardo lo schermo: un SMS. Chi usa ancora gli SMS?

Il mittente è sconosciuto. Il messaggio è breve, criptico: “Prova a guardare oltre.” Più sotto, un link.

Sarà spam? O peggio, un virus? Sto per cancellarlo, ma qualcosa mi blocca. Cosa significa “guardare oltre”?

Alla fine, clicco. Un’app con l’icona di una lanterna si scarica sul mio telefono. Provo a eliminarla, ma non si può. È bloccata. Che cavolo succede?

Decido di lasciarla lì. Per ora.

* * *

Prendo il tablet e ordino due piatti di sashimi di tonno e salmone.

Papà, con una mano, mi sposta il dispositivo da davanti. «Mi raccomando, ordina le cose un po’ alla volta. Non facciamo figuracce.»

Il robottino si avvicina al nostro tavolo con la prima portata, e io scatto una foto del piatto ancora tra le sue mani meccaniche.

Papà mi versa la Coca-Cola nel bicchiere. «Con la matematica cosa pensi di fare?»

«Boh, non saprei, la studierò…» Bip. Margherita ha messo un like alla mia storia.

Papà mi prende delicatamente per il braccio. «Metti giù il telefono, per piacere? Vorrei che trovassimo una soluzione insieme.»

«Aspetta, pubblico l’ultima foto e poi lo metto via.»

Lui abbassa lo sguardo e armeggia con le bacchette.

Prendo la foto e preparo il post. “Sashimi, il mio piatto preferito! Sto diventando un pro con il sushi. Questo locale è top, ormai è il ritrovo fisso con la crew. Chi non ci è ancora stato, cosa sta aspettando?! #SashimiVibes #SempreQui #FoodieLife”

Perfetto. Lo invio.

Come sempre, controllo subito il risultato per vedere se qualcuno è già online e l’ha visualizzato.

Rileggo la didascalia. “Sushi night con papà... ma c’è qualcosa che manca. Non è proprio lo stesso senza di te, mamma. Vorrei fossimo tutti insieme. #FamilyFeels #SashimiTime #MissingYou”

Ma come? Non ho scritto questo. Che succede? Come è possibile? Devo cancellarlo immediatamente. Perderò un sacco di follower, e mi rideranno dietro tutti.

Eliminato. Per fortuna nessuno aveva ancora messo like al post.

Papà mi guarda stranito. «Marco, tutto bene? Sei sbiancato. Metti giù quel telefono, per piacere? Stavamo facendo un discorso importante.»

Ha ragione. Meglio metterlo via prima di fare altri danni. Poi, con calma, quando siamo a casa, proverò a ripubblicarlo.

Beve un sorso di birra cinese. «Senti, se vuoi ti posso aiutare io, qualcosa mi ricordo.»

Poso le bacchette e sbuffo. «Aiutare a fare cosa?»

Lui mi lancia un’occhiataccia. «Come a fare cosa? Matematica. Hai preso un quattro stamattina. Te lo sei dimenticato?»

Ancora con questi voti, ancora con questa benedetta scuola. Ma possibile che per lui io sia solo uno studente? Io non sono solo un voto nel registro elettronico, proprio ieri ho superato i mille follower su Instagram e lui nemmeno lo sa.

«Con la mate mi arrangio. Non mi serve il tuo aiuto.»

Scuote la testa. «Va bene, come preferisci. E Luca, lo vedi ancora?»

Prendo il tablet e ordino una barca da diciotto pezzi di uramaki.

«Certo, ci siamo scritti anche oggi pomeriggio.»

Il robottino arriva con la pirofila piena di sushi. Ci guardiamo con aria complice: inizia la sfida a chi ne mangia di più.

Tra un boccone e l’altro, papà torna su Luca.

«Sì, ma ci esci mai insieme? Vi trovate il pomeriggio per fare un giro in bici o due tiri al pallone?»

Non capisco cosa gli importa cosa faccio con lui.

«Te l’ho già detto, ci sentiamo. Facciamo qualche videochiamata, giochiamo a Fortnite online, e poi ci seguiamo sui social tutti i giorni.»

Intanto, mentre lui è distratto a parlare, sono in vantaggio. Sul piatto restano due pezzi di sushi. Li arraffo io, e lui resta a bocca asciutta: «Vinto!»

Ride, poi prende il tablet e ordina un altro vassoio. «Voglio la rivincita.»

La cena prosegue allegra, continuiamo la gara di sushi. Alla fine, ha vinto lui. Come sempre.

Arriviamo a casa che è quasi mezzanotte. Parcheggia davanti al portone e sbadiglia.

Entriamo. Si toglie le scarpe all’ingresso, appoggia le chiavi sul mobiletto e si stiracchia. «Io vado a letto. È stata una giornata lunga, sono a pezzi,» mi dice, togliendosi la giacca.

Annuisco, sfilo le scarpe e mi distendo sul divano.

Papà mi scompiglia i capelli per attirare la mia attenzione. «Vai a letto presto, che domani c’è scuola.»

Accendo la TV, sul primo canale a caso. «Cinque minuti e spengo.»

Lui sparisce in camera e io resto solo.

Il telefono è caldo tra le mani, le dita che scorrono senza fermarsi sui feed di Instagram: le solite foto, le solite facce, le solite storie. Bip, un’altra notifica. Mi fermo su un nuovo post di Luca. Lo apro.

Si è fatto un selfie mentre gioca con la sua console nuova. Caspita, quante cose gli regalano. E io che mi devo sudare tutto. Leggo la didascalia. C’è qualcosa di strano: è diversa dal solito. “Provo a riempire il vuoto che ho dentro distraendomi con i videogiochi. Speriamo mi venga sonno presto. #solitudine #alone #lanotteèlunga”

Che cavolo? Questo non è Luca. Lui non scrive queste cose.

Chiudo la foto e ne apro un’altra, stavolta di Margherita. Una foto di oggi pomeriggio, lei e le sue amiche in giro per il centro commerciale, si fanno un selfie mentre bevono un bubble tea. Ma la didascalia… anche stavolta è strana: “Oggi siamo amiche, ma domani potrebbero voltarmi le spalle. #viviilmomento #coglilattimo #amichepersempremai”

Sento una fitta allo stomaco. Cos'è questa roba?

Scorro ancora, ma ogni post è peggio del precedente.

Matteo ha postato una foto di lui in palestra, si vedono i dischi in ghisa e il suo bicipite gonfio per lo sforzo: “Non importa quanto ti alleni, alla fine non sei mai all’altezza degli altri. #training #fitness #goodwork #nonmollaremai”

La mia testa comincia a girare. Che diavolo sta succedendo? Provo a chiudere e riaprire Instagram.

Torno sul profilo di Luca. Un altro post, un video con il suo calciatore preferito e una musica figa di sottofondo. Sembra tutto normale. Leggo la didascalia: “Se avessi il suo fisico e la sua bravura, non perderei tempo con i videogiochi. #voleredipiù #felicimai”

Non è possibile. Luca non scrive queste cose. Mai. Lui è quello sicuro di sé, quello che ha sempre la battuta pronta, che posta solo cose fighe. Che diavolo sta succedendo?

Gli mando un DM: “Bro tutto ok???”

Bip. Risponde subito: “Sto giocando con la play nuova. Ha una grafica da paura!!!”

Boh. Non ci capisco più niente. A questo punto riavvio il telefono. Magari si è impallata l’app.

Al riavvio, al posto del solito logo a mela, compare l’icona di una lanterna, la stessa dell’app che avevo scaricato oggi pomeriggio. Strano. Appena il telefono si accende provo a eliminarla. Nulla da fare: non si cancella.

Torno su Instagram e controllo qualche altro profilo. Apro quello di Margherita. L'ultima storia è una foto in cui lei e le sue amiche mostrano orgogliose le borse dello shopping: il loro bottino al centro commerciale. La didascalia dice: “Guarda quanti soldi mi tocca buttare per sentirmi parte del gruppo. #grandifirme #sempreallamoda #outfit”

Per sentirsi parte del gruppo? Ma è lei il gruppo, tutte le sue amiche girano intorno a lei, non vanno da nessuna parte da sole. Che bisogno ha di sentirsi parte del gruppo?

Bip. Una nuova notifica. Un DM da Luca. Apro il messaggio: “Bro, che ne dici di farti stracciare su Fortnite? Connettiti al server che giochiamo.”

Mi fermo a fissare lo schermo. Ripenso alle didascalie che ho letto, a come il tono del messaggio sia diverso da quello che ha scritto sotto ai post.

Devo capirci di più, è tutto troppo assurdo. Faccio una screenshot del suo post in cui gioca con la console nuova per spedirgliela e chiedergli spiegazioni. Ma quando guardo la foto, mi accorgo che la didascalia è cambiata: “Processore e scheda video al top. Questa console non ha rivali, le altre sono preistoria. #grafica4k #realtàvirtuale”

La vista mi si appanna. O sto diventando matto, o è il mio cellulare a essere impazzito. Riapro Instagram e rileggo la didascalia in cui Luca si lamenta della solitudine. Poi riguardo la screenshot, e leggo che si vanta della grafica della sua nuova console.

Riavvio il telefono un’altra volta. Di nuovo quella lanterna, ora però, sotto è apparsa una scritta. “Prova a guardare oltre.” Il messaggio lampeggia sullo schermo del telefono, la lanterna digitale che brilla per un secondo prima di sparire. La fisso, ancora incerto su cosa stia succedendo. Cosa vuol dire “guardare oltre”? Che significa davvero?

Appoggio il telefono sul petto e chiudo gli occhi. Forse tutto questo mi sta solo facendo impazzire.

O forse, no.

Che sia tutta colpa di questa app? Ripenso al post che ho cancellato quando ero al ristorante. In didascalia c’erano scritte le mie vere emozioni, quello che provavo realmente e non quello che volevo far credere ai miei follower. Forse accade la stessa cosa anche per i post dei miei amici. Forse, grazie a questa app, sto leggendo quello che provano realmente e non quello che vogliono far credere agli altri.

* * *

Papà mi sveglia scuotendomi. Sono andato a letto tardi e faccio fatica ad aprire gli occhi.

Mi lavo, mi vesto, colazione al volo e corro a prendere il bus.

A bordo nessuno parla. Ognuno è immerso nel proprio telefono, le dita che scorrono rapide su schermi lucidi, tra like, cuori, emoticon. Tutti impegnati a consumare e condividere vite perfette, costruite ad arte. Li osservo, e un senso di angoscia mi cresce nello stomaco. Mi rendo conto che è tutto finto: una messa in scena studiata per proiettare un’immagine irreale di noi stessi. Sorrisi, momenti perfetti, storie di felicità ostentata. Ma dentro, ognuno combatte i suoi demoni.

E noi? Come galline, ci nutriamo di queste illusioni, ingurgitando le immagini che ci vengono servite, senza riflettere. Sprechiamo il nostro tempo a ingannarci a vicenda, fingendo di crederci.

Il bus accosta alla fermata di Luca, lui non c’è. Guardo fuori dal finestrino, mi aspetto di vederlo correre affannato sul marciapiede ma non c’è nessuno. L’autista chiude le porte e riparte.

Un presentimento mi colpisce all’improvviso, forse c’è un motivo per cui ho ricevuto questa app. Afferro il telefono e scorro il suo profilo Instagram. L'ultima foto mi fa gelare il sangue.

Una foto dei binari della ferrovia visti dal ponte. Un'immagine costruita bene, con senso artistico, i binari che corrono verso l’orizzonte a cui lui ha applicato un bel filtro fotografico. La didascalia recita: “È ora di andare. Niente rimpianti. #nuovoinizio #viaggio”

Ma appena finisco di leggerla, entra in azione la lanterna e la didascalia cambia. La verità emerge, inquietante: “Un treno può essere l’inizio o la fine di un viaggio. Dipende dalla tua prospettiva. Per me è la fine. #basta #nonnepossopiù #adessoomaipiù”

Il cuore mi balza in gola. Luca... Luca sta per fare una cazzata. Penso subito al peggio. Non posso aspettare. Le mani mi tremano mentre gli scrivo un messaggio: “Luca, dove sei? Rispondimi subito.”

Lo visualizza, inizia a scrivere, vedo i tre puntini che si muovono, ma non arriva nessuna risposta.

Il bus si ferma, salto giù, attraverso la strada di corsa e prendo al volo quello che va nella direzione opposta. Il cuore mi martella nel petto. Spero di arrivare in tempo prima che faccia la stupidaggine più grande della sua vita.

Attraverso i campi correndo, l'erba alta mi graffia le gambe, ma non mi fermo. Devo trovarlo. Corro a perdifiato. Come ho fatto a non accorgermene? Ma come potevo, parlavamo con messaggi, con post, con commenti sui social, è facile mentirsi se non ti guardi mai negli occhi. Dovevo avercelo davanti, avrei capito che non me la raccontava giusta.

Arrivo vicino al ponte della ferrovia. Lo vedo: Luca è lì, seduto accanto ai binari, con le spalle curve. Non alza lo sguardo, continua a fissarsi le punte delle scarpe.

Mi avvicino piano, il cuore in gola. Almeno è vivo.

Arrivo a pochi passi, senza sapere cosa dire, e resto immobile davanti a lui. Luca alza lo sguardo, gli occhi gonfi di chi ha passato la notte in bianco, e in quegli occhi vedo tutto. Il suo dolore. La sua solitudine. La sua disperazione.

Mi siedo accanto a lui e lo abbraccio. Lo stringo forte. «Cosa ti eri messo in testa? Volevi buttarti sotto al treno?»

Lui non alza la testa, continua a tenere lo sguardo basso. «Ma no, che sei pazzo? Ti pare che faccia una cosa del genere?»

Non rispondo, gli lascio lo spazio per parlare.

«Comunque,» prosegue senza mai guardarmi. «Sono felice che sei arrivato.»

Gli scompiglio i capelli e sorrido. «Dai scemo.» Mi alzo e gli allungo la mano. «Andiamo a scuola.»

FINE

INSONNIA- MILENA GRAZIOLI

I suoi genitori erano brave persone e, sicuramente, avranno voluto augurargli una vita felice dandogli quel nome antico il cui incontro dei vocaboli di origine greca, “bene” e “destino”, può essere ricondotto a una frase che suona più o meno così: «colui che ha buona fortuna», cioè fortunato. Il fatto è che Eutico, da quasi due anni a questa parte, fortunato non lo si sente proprio.

Tutto era iniziato una notte di aprile, una di quelle notti in cui l’aria è tiepida e profumata, la notte prima del colloquio di lavoro che aspettava da tanto tempo. Dopo la laurea in Ingegneria, infatti, aveva svolto solo lavoretti poco redditizi e poco soddisfacenti. Poi quella grande opportunità.

Quella sera, dopo la doccia, si era coricato alla solita ora per potersi riposare a sufficienza in vista della giornata che lo attendeva. Eutico non era mai stato un tipo ansioso. In modo tranquillo aveva affrontato tutti gli esami universitari, anche i più ostici. Alla stessa maniera si era sottoposto a due complicati interventi chirurgici alla spalla dopo un infortunio. Perciò, quella sera, era stupito del fatto che faticasse così tanto a prendere sonno. Si girava nel letto in cerca di un comfort che non riusciva a raggiungere. Si era alzato per bere un bicchier d’acqua e, per prevenire altre interruzioni, si era recato anche in bagno. Ma niente, alle due e mezzo era ancora sveglio. Di sicuro si sentiva teso per il colloquio, questo doveva essere senza ombra di dubbio il motivo, anche se non lo avrebbe mai detto, non gli era mai capitata una tale situazione. Perdere il sonno per un colloquio non era da lui. Cosa poteva fare? Rimanere lì a fissare il soffitto non gli andava, perciò indossò una tuta da ginnastica e uscì in strada.

Rimase sorpreso dalla sua città. Conosceva ogni via, ogni piazza, ma adesso, percorrendole, gli sembrava di visitare un posto sconosciuto. Di giorno tutto era brusio, fermento, rumori, luce. Di notte il buio e il silenzio avvolgevano le case, i palazzi, le panchine, gli alberi di qualcosa di misterioso e intrigante.

Il giorno successivo si recò all’incontro di lavoro che andò molto bene, Eutico fece una bella impressione e si aggiudicò l’incarico. Passò dai genitori a dare la bella notizia e la sera offrì un abbondante aperitivo ai suoi amici per festeggiare con loro. Tornato a casa si lavò, si cambiò e, dopo aver guardato una partita in tv si mise a letto ma non riuscì a addormentarsi. Non c’erano più scuse, stavolta nessun pensiero adombrava la sua mente, nessun fastidio fisico lo affliggeva: una misteriosa malattia doveva averlo contagiato!

Per mesi eseguì numerosi accertamenti clinici. I medici e gli psicologi indagarono su quello strano caso di insonnia prescrivendogli, a ogni visita, un farmaco differente o una terapia alternativa come massaggi rilassanti e meditazioni guidate. In famiglia si andarono a recuperare i vecchi rimedi casalinghi tramandati dagli anziani. Ma nulla! Le provò tutte. Si sfiniva in palestra o correva svariati chilometri ma nulla sembrava funzionare. Lui stava bene, la sua vita diurna trascorreva come di consueto ma la notte era sempre sveglio e vigile.

Solo una notte, l’intruglio preparato da sua zia abbinato alla compressa rosa consigliata da un giovane dottore lo fece dormire per tre ore a fila. Ma poi l’effetto svanì così come era arrivato.

Non dormiva ormai da molti mesi. Passava le notti a dannarsi per la sua sfortuna e a cercare su internet la soluzione. Poi piano piano cominciò a considerare l’insonnia come la possibilità di vivere il doppio degli altri. Allora si mise d’impegno per sfruttare il tempo al meglio. Pulì casa, giocò ai videogiochi, spostò i mobili, fece sport, cucinò prelibatezze.

Ma non era ancora appagato, voleva rendere più proficue quelle ore di vita extra. Si mise a studiare per imparare una lingua straniera che ben presto divennero due, poi passò alla biologia, la geografia, la teologia… e fu così che, per caso, leggendo alcuni brani di testi sacri, venne a conoscenza di una cosa curiosa: Eutico, il suo omonimo, era un personaggio biblico, semi sconosciuto (chi mai ha sentito parlare di Eutico!). Il ragazzo viene citato nella Bibbia perché è stato protagonista di un episodio miracoloso riguardante l’apostolo Paolo. Eutico stava assistendo a una predicazione di Paolo accomodato sul davanzale di una finestra al terzo piano dell’abitazione di un discepolo. Il ragazzo venne sopraffatto da un sonno profondo, cadde dalla finestra, e morì. Paolo lo raggiunse e, con un abbraccio, lo riportò in vita. Venire a conoscenza di questo episodio fece infuriare il nostro Eutico che lo prese come uno scherzo di cattivo gusto da parte del destino. Il suo nome gli aveva sempre causato del disagio: i bambini a scuola lo prendevano in giro, gli adulti si sorprendevano e gli chiedevano lo spelling, la professoressa di francese lo pronunciava “Ôticò”, davvero frustrante! E ora questo! Scoprire che l’antico Eutico rischiò la sua vita perché letteralmente crollava dal sonno era troppo per lui che stava impazzendo nel dover subire la condanna di restare sempre sveglio. Sprofondò in depressione e abbandonò tutti i suoi studi.

Di giorno reggeva bene il ritmo degli impegni quotidiani ma la notte era in preda alla disperazione. Come un pazzo si aggirava per casa. Annoiato, insofferente. Avrebbe dato qualsiasi cosa per riuscire a chiudere gli occhi qualche ora e staccarsi dalla realtà. Perché? Perché gli stava capitando tutto ciò? C’era forse una ragione? Era destinato a qualcosa che ancora non poteva comprendere? Questo pensiero lo incoraggiava e lo distraeva, gli piaceva l’idea che per lui ci fosse un disegno più grande. Ma poiché questo non si palesava, la depressione tornava più forte di prima e accresceva anche la sensazione di sentirsi stupido nell’aver immaginato qualcosa del genere.

Il tempo passò e il tormento di Eutico si faceva via via più insopportabile. Eutico riprese a navigare in internet senza uno scopo preciso e iniziò, sempre più compulsivamente, a fare acquisti online. Non era raro che rientrando dal lavoro il portinaio gli consegnasse anche una dozzina di pacchi alla volta. Di notte li apriva cercando in quell’attività una consolazione che rapidamente lasciava posto al vuoto che sentiva aumentare dentro di sé. Una notte di primavera, la sua attenzione fu catalizzata da una scatola abbastanza grande. Non recava il marchio di alcun corriere, era una scatola di cartone chiusa con del nastro adesivo trasparente. Non si ricordava di aver comprato qualcosa che potesse avere quella dimensione. Subito l’aprì e ne estrasse una lanterna. Una lanterna portatile, di quelle che appoggi sul tavolo in giardino o appendi al gazebo d’estate e che all’occorrenza puoi prendere in mano tramite l’apposito gancio e portare con te fino al cancello per accogliere gli ospiti che hai invitato a cena in una bella e calda serata agostana. Questa lanterna era imponente e massiccia; la struttura era esagonale di metallo nero e sosteneva sei lastre di vetro imbrunito dall’uso ma, cosa assurda, non c’era né uno sportellino per inserire una candela né un serbatoio per il liquido combustibile. In che modo si sarebbe potuta utilizzare? Sembrava antica, è vero, ma anche difettosa e… usata! Eutico non era un grande estimatore degli oggetti di seconda mano perciò, stizzito, la gettò in un angolo imprecando tra sé contro il fattorino per aver sbagliato la consegna. Si voltò per dedicarsi ad altro e inciampò nello scatolone vuoto. Lo raccolse da terra e, con rabbia, fece per scaraventarlo contro la lanterna quando si rese conto, che non c’era nemmeno una targhetta. Nessun mittente e il nome del destinatario senza alcun indirizzo era stato scritto a mano con un pennarello sul fianco dell’involucro: «Per Eutico». Com’era giunta fino al suo appartamento? Gli sembrò molto strano. Si avvicinò, allora, più curioso di prima, alla lanterna che improvvisamente si illuminò! Eutico venne colto di sorpresa, si spaventò e, per poco, non cadde all’indietro.

Com’era possibile?

L’unica cosa che gli venne in mente fu di rivolgere la domanda a internet, il moderno oracolo.

«Lampada che si accende da sola» … e uscì una serie di informazioni su timer, sensori, led solari o contatti elettrici.

«Lanterna e fenomeni soprannaturali» … e uscì una serie di informazioni sulle lanterne del passato utilizzate, soprattutto in teatro, per creare effetti speciali e illusioni fantasmagoriche.

Poi, sempre più ossessionato, fece la domanda più banale di tutte: «A cosa serve una lanterna?» Risposta: «Lanterna, strumento per illuminare».

E la luce si accese anche in lui e rischiarò la sua mente. Tutto gli apparve chiaro. Ora sapeva esattamente qual era lo scopo della sua insonnia. In quel momento si sentì un uomo nuovo, benedetto da un destino fortunato. La luce della lanterna gli aveva mostrato la via.

La notte successiva ricorreva proprio il secondo anniversario dall’inizio dell’insonnia e seguì lo stesso istinto di due anni prima quando, pur non sapendolo, aveva fatto la scelta giusta per poi non ripeterla mai più fino a ora: si mise la tuta da ginnastica e uscì nel buio, ma questa volta aveva con sé la sua lanterna. Non aveva mai più messo piede fuori casa di notte ma adesso sapeva che era la cosa giusta da fare.

Le strade erano buie come le ricordava ma non erano affatto silenziose ora che il suo cuore era pronto ad ascoltare.

Lievi singhiozzi venivano da un muretto dietro la siepe del municipio. Una ragazza seduta piangeva tenendosi le ginocchia al petto. Eutico le si avvicinò e le si sedette accanto, mise la lanterna fra di loro. La sua luce si fece calda, morbida. La ragazza guardò Eutico e capì che poteva fidarsi, aprirsi: «Dovevamo sposarci oggi, qui, al secondo piano, nella sala consiliare».

«Cos’è successo?»

«Non lo so… non si è presentato… diceva di amarmi.»

Non ci fu bisogno di aggiungere altro. Eutico non poté fare nulla se non ascoltarla. La lasciò parlare dei momenti felici, dei loro progetti, del loro futuro. La ragazza era triste. Era stata lasciata in un modo odioso. Senza spiegazioni. Aveva tutto il diritto di esternare la sua delusione. Eutico però volle andare oltre e, dopo averla fatta sfogare, le chiese di provare a ricordare anche gli aspetti negativi di quella relazione e la ragazza intravide qualcosa che fino ad allora, forse, aveva scambiato per amore. Alcuni comportamenti del fidanzato ora le sembravano ambigui e tossici. Non ci aveva mai riflettuto.

Rimasero a lungo seduti alla luce della lanterna. La giovane aveva smesso di piangere e la conversazione si fece leggera e amichevole. Alle prime luci dell’alba si salutarono abbracciandosi.

Non si rividero mai più ma per entrambi fu l’inizio di una vita nuova.

Eutico era elettrizzato da questa novità, per la prima volta la notte era volata, aveva speso davvero bene il suo tempo!

Eutico la notte dopo conobbe Samir, un uomo sposato e padre di quattro bambini. Erano fuggiti dagli orrori della guerra e, giunti qui, lui si era da subito dato da fare per mantenere la sua famiglia. Aveva imparato il lavoro di idraulico anche se al suo Paese d’origine era un artigiano intagliatore di legno. Samir raccontò a Eutico di essere demoralizzato perché, nonostante i sacrifici, i soldi non bastavano e aveva il cuore spezzato nel vedere i suoi bambini che vivevano di stenti. Samir era molto nervoso, agitato, non riusciva a stare fermo, perciò, Eutico gli faceva compagnia nei suoi vagabondaggi notturni. Si incontrarono per parecchie notti. Samir gli chiese la cortesia di fargli tenere la lanterna perché gli infondeva sicurezza e calma. Eutico accettò, sapeva che la lanterna stava svolgendo la sua funzione: illuminare la via. Samir voleva trovare un secondo lavoro ma non riusciva e questo lo impensieriva al punto da tenerlo sveglio così tante notti. Era in ogni caso combattuto perché anche se avesse trovato un altro lavoro avrebbe dovuto stare fuori casa molte più ore e sacrificare tempo prezioso che lui voleva comunque passare con la famiglia. Poi, verso le cinque di una notte che ormai volgeva al giorno e che sembrava dover finire come era iniziata, Samir attraversando la piazza principale con Eutico al suo fianco che lo teneva stretto a sé in un fraterno abbraccio e con in mano la lanterna, che lanciava vivaci lampi di luce, venne colto da una folgorante idea: avrebbe ripreso la sua attività artistica in casa, avrebbe lavorato di sera con l’aiuto della moglie, accanto ai figli che facevano i compiti e avrebbe provato a vendere le sue creazioni.

La notte successiva Eutico cercò Samir ma, con immenso sollievo, non lo trovò.

Venne il turno di Elisabetta, che doveva sostenere l’esame di guida. Riccardo, che amava Sergio ma non riusciva a fare coming out con i suoi genitori. Dennis, che dopo un ciclo di chemioterapia aspettava con ansia gli esiti delle analisi. E così via: Pietro, Silvia, Chiara, Filippo, Omar…

Le tribolazioni degli esseri umani sono svariate, variegate.

Tutte diverse, tutte importanti. Hanno profondità, gravità e dimensioni differenti ma tutte sono devastanti per l’anima e il corpo di chi le prova.

E non finiranno mai.

 

Da dove sia venuta la lanterna e chi l’abbia inviata a Eutico rimarrà per sempre un mistero. Anche se al ragazzo piace credere che sia un dono dall’aldilà da parte dell’amato nonno che conservava, nella sua casa in campagna, sopra al camino, una vecchia lanterna appartenuta al suo bisnonno, il quale era stato un infaticabile minatore. Il nonno era per Eutico un vero faro nella notte e tutti i suoi insegnamenti erano riusciti a far breccia nella giovane vita del nipote, forgiando un ragazzino in gamba, generoso e sensibile. Poi una terribile malattia li aveva separati materialmente ma, secondo Eutico, non spiritualmente.

Qualunque sia la sua provenienza, la lanterna ha aiutato Eutico ad accettare la sua condizione di insonnia cronica. Per Eutico non è più una punizione sterile che rischia di farlo impazzire. Le sue notti non saranno più lunghe, vuote e improduttive. Messe a disposizione del prossimo sono e saranno utili e preziose per molti anni a venire. Leniranno, conforteranno chi, per svariati problemi, disavventure e guai, non riesce a dormire e, come Eutico, la sua prima notte, trae conforto nel camminare nell’oscurità del cielo notturno in attesa che arrivi la luce del nuovo giorno a farlo stare meglio. Ora gli sfortunati, molto fortunati, che per un motivo o un altro si trovano in difficoltà, non riescono a prendere sonno e si aggirano per la città, possono incontrare facilmente Eutico che non si addormenterà mai nel sentirli raccontare le loro disavventure, a differenza dell’Eutico biblico. Viceversa, come l’Eutico biblico, restituirà il miracolo ricevuto infondendo con un abbraccio, nuova vita a chi, anche solo per il tempo di una notte, si sarà sentito morire. Starà lì sveglio, con loro una notte dopo l’altra finché i problemi non saranno risolti e sì, loro sì, potranno tornare a dormire sonni tranquilli. Eutico rischiarirà la via con la sua lanterna che ben rappresenta la luce della comprensione e della solidarietà per chiunque ne avrà bisogno.

 

Quando una via è ben illuminata tutto diventa più semplice. Anche se il percorso è lungo e difficoltoso lo si può affrontare serenamente.

Quando qualcuno, un amico o uno sconosciuto, ti offre il suo conforto la vita, anche se dura, si fa più accettabile.

Nella notte se incontri Eutico e la lanterna diventi anche tu «colui che ha buona fortuna».

FINE​

LA LANTERNA SUL PROMONTORIO- STENO ZENO

La luna piena si riflette sul mare, l’aria umida e salmastra s’infila nel casco rosso e blu, per un attimo tremo di freddo nel giubbotto di pelle lisa. Inclino la moto e la mia Honda piega docile sulle curve della costiera scozzese, il fanale a led sbianca i muretti a secco lungo la strada e la campagna intorno è un sipario nero. Sono in sella da ore, mi raddrizzo per dare sollievo alla schiena indolenzita.

Il navigatore accanto al cruscotto dice che mancano sessanta miglia alla prossima città. Pennello le curve sulla strada scura, in lontananza vedo un promontorio e il fascio di un faro balena sul mare, dietro alla lanterna brillano le finestre di un edificio a due piani.

Al primo incrocio, come una falena, vado verso la luce.

 

Esco dal buio di un boschetto di pini e l’asfalto lascia posto a un vuoto e ampio parcheggio con la ghiaia che scricchiola sotto le ruote. Già immagino l’aroma di caramello e cioccolato di una Dark Ale e il sapore terroso e denso di un haggis. Mi fermo alla locanda, spengo il motore; la brezza notturna è l’unico suono che resta. Sull’insegna di legno sospesa l’immagine del faro e la scritta La Lanterna sono incise a fuoco. La tavolozza dondola lenta, corrosa dal sale e dal tempo. Tolgo lo zaino dal sellino e me lo butto in spalla.

Sulla porta di noce restano solo le testarde macchie verde irlanda della vernice di un tempo. Abbasso la maniglia, devo dare una leggera spallata al legno umido e gonfio per aprirla. Il tintinnio della campanella appesa a un gancio attira gli occhi dei clienti su di me.

L’interno è in quercia e arenaria, come duecento anni fa. Le assi del pavimento sono fruste dalle migliaia di passi che le hanno calpestate nei secoli.

I pochi avventori mi fissano muti, alcuni occupano i tavolini rotondi, antichi e scheggiati, altri siedono sulle panche con la tipica stoffa a quadri. Il silenzio nella locanda gela più della notte fuori, non c’è nemmeno un po’ di musica.

Azzardo un «Buonasera.»

Dei pesci rossi sarebbero più loquaci.

Mi dirigo al bar, gli sguardi mi seguono, mi sembra di avere una mano gelida sulla nuca. Il pavimento cigola sotto i passi degli stivali.

Il bancone, sovrastato da archi in pietra, è in lucido legno scuro. Il barman pelato e in carne ha baffoni che diventano folte basette, ripone una bottiglia di Macallan su una mensola. Un tizio che sembra uscito dal secolo scorso è appoggiato al bar, indossa una giacca di tweed con le toppe ai gomiti, la coppola ben calcata in testa, tra le dita un bicchierino di liquido ambrato, lo trangugia in un sorso e lo sbatte sul banco fissandomi.

Il publican dalla pancia abbondante sotto l’unta canotta bianca e dalle braccia tatuate mi squadra truce: «Benvenuto.» e sputa lì uno «Straniero.»

«Buonasera.» Ho la sensazione di aver fatto un errore colossale. Forse è solo suggestione. «Vorrei una camera per la notte e un piatto caldo.»

«La camera è già pronta. Di sopra, a metà corridoio.» passa lo straccio sul banco scuro senza guardarmi in faccia.

C’è un silenzio inquietante; se ci fossero le termiti le sentirei scavare nel legno.

«Già pronta?» La suggestione ora l’ho eliminata dalle possibilità.

  «Ne tengo sempre una libera.» Si appoggia al bancone su quei tronchi disegnati che ha al posto delle braccia e inchioda gli occhi marroni nei miei. «Nel caso arrivi un nuovo ospite.»

Ok, sto seriamente pensando di riprendere la moto e farmi quelle sessanta miglia. Fanculo il freddo.

  «Cosa vuole mangiare?»

  Il mio stomaco brontola, vuoto e affamato, alla strada penserò dopo.

  «Haggis.» Metto il casco sul legno lucido e poggio lo zaino a terra «E una Dark Ale.»

  Il barista prende un boccale e la spilla nel più totale silenzio.

  Guardo il tizio in tweed; viso magro, baffetti sottili, vispi occhi azzurri, sotto la giacca una camicia bianca e un papillon a quadrettini.

  «Ecco.» mi presenta una Stout.

  «Scusi, le avevo chiesto una Dark Ale.»

  Mi ignora e si gira. «Vado in cucina. Vedo cosa trovo.»

  Picchio un pugno sul banco, «Ehi, senta...»

  Mr. Tweed mi posa una mano sull’avambraccio, «È un po’ burbero all’inizio, ma poi diventa simpatico.»

  Lo guardo dubbioso. Quindi Mr. Tweed ha il dono della parola! Accenna un sorriso e allunga la mano.

  «William Forbes, Laird di Tolquhon, piacere.»

  Ah, un ricco terriero.

  «Harrison Leaf, bibliotecario.» porgo la mia e mi ritrovo a stringere degli stecchetti magri e fragili.

  «Vada pure a sedersi, vedrà che il vecchio Jack farà miracoli in cucina.»

  «Lo spero, sto morendo di fame.»

  Mi volto verso la sala, l’unico tavolo libero è in fondo al locale, ha solo una sedia.

  Tiro su lo zaino. Mentre cammino con il casco in una mano e la pinta nell’altra osservo i clienti.

  Al tavolo accanto alla porta è seduta una coppia, lui vestito come Mr. Darcy, il cilindro poggiato sulla panca, lei mi ricorda Clarissa Dalloway, un corsetto color pesca e l’ombrellino parasole in grembo; poi un capellone con un gilet psichedelico e la custodia di una chitarra con gli adesivi di Woodstock, Monterey e l’Isola di Wight; al tavolo vicino c’è un muratore, sul bicipite il tattoo di Freddie Mercury, le mani grandi, camicia e jeans sporchi di pittura e malta; a quello dopo c’è una ragazza sui vent’anni, capelli rossi, efelidi e due iridi color cielo, un iPod tra le dita e le cuffiette nelle orecchie, muove la testa seguendo la musica. Raggiungo il mio posto, metto il casco a terra accanto allo zaino e poggio il mio smartphone sul tavolo.    Mi siedo e assaggio la birra, il cremoso tocco amaro e il sentore di liquirizia mi avvolgono il palato. Spero che “il vecchio Jack” si sbrighi con l’haggis, o qualunque cosa mi porterà dalla cucina.

  Ormai non sono più l’attrazione del locale, nessuno mi degna di uno sguardo.

 Comincio a sentire caldo, mi tolgo il giubbotto. Nell’attesa scorro le notifiche. Poco dopo arriva Jack con un piatto fumante e le posate.

  «Grazie.»

  Grugnisce e se ne va.

 Guardo il piatto, non sembra un haggis ma ho troppa fame, l’odore sa di selvatico, è invitante e comincio a riempirmi lo stomaco. Non so cosa sto mangiando ma il sapore speziato e leggermente piccante mi piace. Finito il piatto e bevuta la birra torno da Jack. Allunga una mano verso un casellario, prende la chiave della camera e la poggia accanto al casco sul legno lucido.

  Gli porgo la patente per la registrazione.

  «La metta via. Non c’è fretta.» torna in cucina e mi lascia come un cretino col documento in mano.

  Scambio uno sguardo con William, che sta giocherellando col bicchierino di whisky vuoto sul banco deserto. «Di preciso, quand’è che diventerà simpatico?»

  «Pazienza, amico mio, pazienza. Vada a riposare ora, buonanotte.»

 Prendo il casco e la chiave, il portachiavi è una palla da biliardo numero 8. Molto incoraggiante.

  «Buonanotte Mr. Forbes.»

  Solleva il bicchierino pieno e mi dedica un brindisi.

  «Buonanotte Mr. Leaf.»

  Prendo la mia roba e vado verso le scale.

  I gradini secolari scricchiolano, arrivo alla stanza, apro la porta e accendo la luce. Appaiono un letto che arriva dal mercatino dell’usato, uno scrittoio a serranda e pareti giallo paglia. Poggio lo zaino, metto il casco e il giubbotto nell’armadio a due ante, mi lascio cadere sul letto che cigola sotto al mio peso, mi tolgo gli stivali e storco il naso per l’odore. Strano, ero sicuro che il bicchierino di William fosse vuoto, sono davvero stanco. Spengo la luce e mi stendo, le molle gemono, mi addormento un attimo dopo.

 

  Mi sveglio di colpo, sbarro gli occhi. Vedo solo nero. Qualcosa mi schiaccia il petto. Immobile annaspo aria. Nella mente una vertigine vuota e oscura. Le braccia bloccate, i polsi premuti sul letto. Il panico mi travolge, nel buio cerco di respirare, spalanco la bocca ma non arriva aria, una corda mi stringe il collo e il cuore schianta pugni sulle costole, le lacrime tracimano dalle ciglia.

  Il fascio del faro rischiara la stanza per un secondo. Non c’è nessuno su di me ma qualcosa mi stritola le coste, poi torna il nero. Cerco di liberarmi, agito la testa, la sbatto disperato sul cuscino, urlo terrorizzato, ma nessun suono mi esce dalle labbra. Non vedo niente, sono sospeso nel nulla, lotto con l’invisibile, piango, grido il silenzio, mi stringono i polsi con forza, sono un bambino indifeso, le gambe sono tronchi pesanti, bloccate. Sono una statua viva. Una morsa mi schiaccia il pomo d’adamo, ora, nel buio ombre grigie si librano attorno al letto.

  Il lampo di luce le scaccia in un attimo. E tutto scompare.

  Sono fradicio, la t-shirt incollata alla pelle, i capelli madidi sulla fronte, il respiro affannato e la gola ruvida, i muscoli spossati. Lentamente il cuore torna regolare, mi gira la testa, ho un vuoto, non sento il peso del mio corpo.

  Un altro raggio della lanterna alla finestra. Riprendo il controllo del mio fisico, indolenzito mi metto a sedere, i piedi nudi sul pavimento freddo, il sudore sulla schiena mi dà un brivido. Mi alzo, barcollo, a ogni passo mi reggo al muro, raggiungo il bagno e accendo la luce, allo specchio la faccia pallida, le labbra violacee. Crollo in ginocchio davanti al water, gli addominali si contraggono come un pugno allo stomaco, vomito l’orrore e la paura. Sputo, tossisco, la bava mi cola sul mento. Con le mani faccio forza sulla ceramica fredda, mi rialzo. Mi appoggio al muro con la schiena, la maglietta umida mi gela. Trascino i piedi fino al lavandino, mi lavo il viso, sputo saliva, mi sciacquo il sapore acido dalla bocca. Lascio la luce del bagno accesa, stanotte non resterò al buio. Arranco debole fino al letto, casco sul materasso, il cigolio riempie la stanza, tolgo la t-shirt zuppa e la butto in un angolo, mi abbandono sfinito.

  Ancora un lampo del faro, un tremito di freddo, tiro le coperte fino al mento, respiro a fondo un paio di volte, chiudo gli occhi un attimo, poi fisso il soffitto e conto i secondi tra un fascio e l’altro fino all’alba.

  Dalla finestra entra il sole, alla fine mi sono addormentato, una doccia calda mi rimette in sesto. Raccolgo la maglietta stropicciata che puzza di sudore, dallo zaino ne prendo una pulita. Infilo i jeans, metto gli stivali e scendo per la colazione.

 

Nel più totale silenzio ritrovo gli ospiti della sera prima. William e la sua giacca di tweed sono al bancone, tra le dita secche un bicchierino di whisky, accenna un brindisi verso di me e lo manda giù in un sorso. Gli altri sembrano non essersi mossi da ieri. Stessi posti e identici vestiti. Nemmeno il muratore sporco di malta si è cambiato. Mi siedo al “mio” tavolo. Jack, i suoi baffoni e la canotta unta si avvicinano con un piatto fumante e una pinta di birra.

«Buongiorno, vorrei un caffè e...» Le grosse braccia tatuate mi piantano davanti il boccale e la cena della sera precedente. Senza una parola mi mostra la larga schiena pelosa e se ne torna al banco.

Ora basta. Scatto in piedi e pesto una manata sul tavolo.

«Ehi, non voglio di nuovo questa roba!»

Gli altri si voltano verso di me con cipiglio severo. All’unisono portano l’indice destro alle labbra, mi intimano di tacere.

«Non sto zitto!» Stringo i pugni e vado al bancone pestando gli stivali sulle assi lise. William mi si para davanti, mi blocca la strada. Gli occhi azzurri forano i miei. Il mio stomaco si annoda, ho la gola secca, un serpente freddo mi sale lungo la schiena. William solleva lentamente una mano, schiocca le dita. Vengo subito risucchiato indietro, come un cane strattonato dal guinzaglio. Volo attraverso il locale e mi schianto sulla “mia”sedia, gambe e schienale si fracassano. Crollo a terra tra gli spuntoni di legno. A bocca aperta guardo William sollevarsi, le sue button boots galleggiano a due pollici dal pavimento, il Laird levita attraverso il pub e si ferma davanti a me.

«Guarda la tua mano.» fa un cenno col mento.

Sollevo la destra. Una scheggia lunga un palmo l’attraversa da parte a parte. Non sanguino, non sento dolore.

«Cosa mi succede?» Un tremito mi riverbera nelle ossa.

William torna coi piedi a terra, poggia le chiappe al tavolino, incrocia le braccia sul petto e sospira con un’alzata di spalle.

«Sei semplicemente morto.»

Lo ha detto così, con banalità, come se parlasse del tempo.

«Non… Non è possibile. Mi sento vivo. Il mio cuore batte.» Mi metto la mano sul petto, sento il pulsare ritmico.

«Alzati.» allunga una mano. Afferro quelle scheletriche dita e mi rimetto in piedi.

«Guarda.» indica dietro di me.

Mi volto, la sedia distrutta ora è perfettamente integra e al suo posto.

William mi prende la mano destra e me la mostra. La scheggia è scomparsa. Non ho neppure un graffio.

«Ma quando? Cioè, quando sono morto? Mi hanno ucciso quelle cose nel buio?»

«Sei già arrivato qui da morto. Ricordi la campanella? Suona solo per chi non c’è più. Stanotte ti hanno solo preso l’anima.»

«Ah, beh, mi hanno solo preso l’anima, cosa vuoi che sia?» un cubetto di ghiaccio mi scende lungo il collo «E ora?»

«Ora aspetterai. Come tutti noi.»

«Ma cosa ci facciamo qui? Che posto è?»

«Beh, sai, la burocrazia è lenta dappertutto. Siamo in attesa.»

«In attesa? E cosa aspettiamo?»

«Di scoprire dove passeremo l’eternità.»

FINE

LANTERNA- MARIANNA ROSSI

 

Tutto iniziò in tempi lontani, proprio dove l'architettura si scontra con la natura, là si possono trovare malinconici castelli, che nascondono confidenze inestimabili.

Quello scrittoio in palissandro, abbandonato da parecchi secoli nella biblioteca di famiglia, cosa mai poteva avere in serbo... tra quei sogni chiusi in un cassetto, che viene aperto solamente quando è il momento perfetto, eri stata progettata: lentamente, delicatamente e in profondità, dove superficie e tempo s'incontrano, si fermano e trovano la giusta misura.

Perché di perfezione stiamo parlando e tu ne sei l'essere più completo e articolato.

Mani sacre quelle del grande maestro, che ti aveva costruita, una mattina d'estate mentre il sole tardava a spiccare il volo, l'aria era fresca, l'orizzonte disteso e in quella piccola bottega lungo Calle Querini stava per accadere un miracolo. Cristallo dopo cristallo ti aveva portata in armonia con quel telaio in ferro battuto meravigliosamente freddo e vuoto, ma così tanto protettivo e solido, scelto unicamente per te e impeccabile in ogni suo dettaglio. Poi al centro quel cuore caldo e luminoso, quello di chi ha tanto da donare, di chi non teme la solitudine e sa concedere fino all'ultimo centimetro di luce a tutto ciò che lo circonda. Appesa ad un gancio ti eri trovata, per ricordarti che dall'alto eri scivolata, attaccamento che ti dava stabilità e capacità di brillare, in ogni tua sfaccettatura e sfumatura, nonostante sapessi che lì saresti dovuta ritornare.

Posta al centro della città, eri l'incontro e l'equilibrio per tutti e quante anime avevi fatto risplendere: chi era soltanto di passaggio e in te trovava un riferimento, chi ti desiderava per abitudine ed ogni giorno accanto a te trascorreva delle ore a mormorare; e ancora chi ti cercava raramente, per trovar consolazione, per scappare dalla monotonia e risintonizzare se stesso.

In quella piccola piazza che odorava di vissuto, anche tu in quegli anni osservavi le espressioni dei viandanti, i loro movimenti e le loro sensazioni; e proprio nel contemplare questo quadro perfetto, ti facevi regalare parole gentili e inaspettate, che facevano da sottofondo alle giornate, che sentivi essere un dono per te stessa.

Ma quella sera era stato predetto dalle stelle, sarebbe stata una notte maledetta: tutto si era fatto buio e tenebroso, nuvole imponenti ti avevano circondata, i fulmini arrivavano come parole taglienti e i tuoni rimbombavano propagandosi dentro fino alle viscere.

“Cosa aveva rotto quell'equilibrio” ti eri chiesta più volte, “cos'aveva sottolineato quel tempo tanto tiranno quanto in passato era stato benefico” pensavi.

"Non si finisce mai di conoscere..." ti eri concessa in molte occasioni, ma dentro di te, percepivi lo spazio di cui ti eri circondata e malgrado questo ti eri riconosciuta spezzata.

Per anni avevi vissuto senza aspettative, perché quella sensazione la conoscevi molto bene: grandi delusioni acerbe... ma nonostante tutto in te avevi davvero creduto. Periodo che sembrava non trovasse termine, percepito quasi infinito, ma quando prendesti l'opportuna decisione, si trasformò in un istante, tanto era il desiderio di sopprimere quel tormento ormai volto al culmine. Così tra un cumulo di ferraglia e qualche vetro rotto qua e là ti facesti spazio, ricomponendoti pezzo dopo pezzo.

Tra il frastuono degli scricchiolii e degli incastri, con l'imbarazzo di non esserci ancora riuscita, riprovavi ancora una volta a trovare la giusta forma.

In quelle notti che ti sembravano definitivamente dimenticate, in cui ti perdevi nella nebbia lungo il viale alberato e nella solitudine ti abbandonavi alle tue speranze. Col chiarore della luna osavi competere, sebbene in cuor tuo, eri consapevole di essertene innamorata. Amore così lontano perché, in quel tuo guardarti da vicino, non ti eri mai concessa di dartene atto, di chi eri realmente. Da qualsiasi lato ti si guardasse, c'era un mondo

da scoprire: volteggiavi nel cielo, con la classe di una ballerina al suo primo debutto; profumavi di saggezza e conoscenza, come quei libri che leggi tutti d'un fiato; davi un sapore avvolgente a quelle serate invernali, come uno chef crea l'equilibrio dei suoi piatti, con gli

ingredienti più ricercati.

Dopo aver compreso che oramai a mancarti era il calore, sei tornata a risplendere raggiante più che mai; impavida come una guerriera che entra gloriosa nella sua città dopo aver vinto la grande battaglia. Solamente ora, dopo esserti ricostruita l'anima, ti senti solida come mai nella vita, libera di

brillare e di essere faro per gli artisti dimenticati, i musicisti silenziosi e i passanti distratti. Imprimendo quiete nei pensieri di chi t'incontra e autenticità in chi su di te si riconosca.

Solo pochi attimi vuoi dedicare a chi con te il cuore si vuole scaldare, così ti ripeti per non dimenticare, che l'ego porta ad incatenarti con te stessa.

Perché in questa occasione non decidi di rompere quei tuoi straordinari schemi, tanto solidi quanto imperfetti, che alla fine ti hanno sempre rinchiusa in una gabbia, che ogni volta ti sei ritrovata a spezzare?

Puoi decidere d'illuminare: scrittori intraprendenti, che decidono ogni giorno di mettersi alla prova con opere che ti possono conquistare; oppure anime lungimiranti che non si accontentano di essere sognatrici e possibili amanti.

Poco conta davvero.

Cara lanterna vuoi che ti sveli un segreto? Amata luce che ci guardi dall'alto, non uno e nemmeno tanti, ma tutti noi, insieme e per sempre.

FINE

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